Mi trovo al porticciolo turistico. Per la prima volta in vita mia voglio provare a pescare. L’ attrezzatura me l’ha prestata un amico.
Ho seguito un breve corso online su come si applica l’ esca all’ amo, su come si maneggia il mulinello e tutto il resto. Non basta, ne sono conscio, ma la noia è peggio di un’infruttuosa battuta di pesca. E poi non si sa mai.
Non so se ci siano dei divieti, pertanto cerco il punto più buio, dove potermi acquattare per stare in santa pace senza rischiare che un custode venga a prendermi a calci.
Mi siedo sul ciglio dell’acciottolato, in un muretto di pietra alto quaranta centimetri. Per mettere l’esca accendo il flash del cellulare. Non vedo nulla, salvo l’amo che sta a venti centimetri dal telefono. Sette minuti e quattro vermi torturati e smaterializzati dalle mie tremolanti mani inesperte. Alla fine, in un modo o nell’ altro, l’esca è pronta.
Butto l’amo lasciandolo cadere poco distante da me, lascio andare la manopola, ma mi accorgo di dover girare il mulinello, perché da solo non va. Forse ho sbagliato, e il contrappeso che ho usato non è sufficiente.
Rimango fermo per un paio d’ore. Il silenzio e l’immobilità dell’acqua del mare mi tengono tranquillo. Non sento il bisogno di passeggiare, di interagire col mondo, anche se di mondo, qui vicino, c’è solo la parte inanimata. Questo mi libera la mente e tiene lontani i pensieri da ogni gesto, ogni azione, ogni intenzione di qualsiasi essere vivente io abbia mai incrociato in vita mia. Non mi capita mai.
Fantastico, come mio solito, ammirando l’insenatura dentro cui si infilano i traghetti, che in questa notte stellata, tutti pieni di lumicini come sono, mi sembrano enormi camion che scivolano sull’ acqua e trasportano le stelle cadenti di tutto il mondo. La luna era grossa e gialla, ma deve essere caduta anch’essa: ieri c’era e oggi non c’è più. Un po’ come quell’amico, morto in motocicletta nella sua tuta gialla, che ho seppellito da poche ore. Lui sì che era un Pescatore, lui sì che era il mio amico.
Un uomo vecchio e grassoccio mi passa davanti, mi guarda fisso, ma prosegue. Lo vedo tornare, stavolta più vicino. Mi guarda ancora, guarda la canna da pesca che reggo in mano, e prosegue.
Dopo pochi minuti è di nuovo nei miei paraggi, stavolta si avvicina alle spalle, aggira la mia grossa mole e le cianfrusaglie sparse a terra, scavalca il muretto dove sono seduto, ma miracolosamente non s’immerge nell’acqua dove pescavo. Non devo tuffarmi a salvarlo.
Sto per scappare, terrorizzato, ma lui mi ferma con una risata. Accende una pila, individua il mio amo, lo raccoglie e me lo da. Rimanendo sempre a pelo d’acqua. Come Gesù.
Passato lo spavento iniziale abbasso lo sguardo, poi scappo davvero. L’attrezzatura la lascio lì, risarcirò il mio amico, quando lo raggiungerò.
Non è stata la paura a farmi correre via, ma la vergogna: oltre il muretto dove sedevo non c’era il mare del porto, c’era un prato. L’acqua cominciava dieci metri più in là.
Stavo pescando sull’erba .

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Racconti di un ottico solitario diRiccardo Balloi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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